Con il senso della possibilità, Antonio Spagnuolo ci lascia
smarriti, tale e tanta è la irrisolta, feroce contraddizione tra il prima e il
dopo, tra l’essere e il dover essere, tra il cambiamento fatto di pensiero
poetante e il discrimine, tra la fuga e l’addio, tra il tempo diacronico e
sincronico, tra antinomie, segni fuggevoli, radici mnemoniche, abbandoni...ad ogni
ora, sempre, riaffiora quasi esumato dalla polvere dell’impellenza retroattiva,
un nuovo giorno catapultato nei bisogni esistenziali e nelle afflizioni che
immobilizzano il sentimento e lo istruiscono nel percorso obbligatorio,
inconcludente della materia. Ma è nel segmento nostalgico che segue ogni tratto
del suo itinere che Spagnuolo distingue in modo sintomatico le sofferenze, le
differenze, vagheggia come uno scolaretto al suo primo appuntamento, fa leva
sulle intuizioni oniriche, sulle inumazioni che avvengono tra le due
dimensioni: umana e intima l’una, ostile quella extraterrena, visita la gamma
esperienziale linguistica che della poesia una campionatura piuttosto vivace e
abbagliata, talché si potrebbe definire in termine anche “abbagliante”. La fascinazione
della parola ricrea un modello unico e irripetibile di sospensioni dialettiche
che lasciano il lettore disorientato e attonito per le continue bellezze e
sinestesie e metafore che la nostalgia della donna amata sa ispirargli. La
solitudine è implacabile e inamovibile: una forza che procrastina la sua vera
morte in un’atmosfera che non è mai elaborazione e disincanto, ma consapevole
approdo, orgia di necrosi, a metà tra la vita e il suo contrario. Quasi mobile
altalena, ogni ancoraggio risulta perennemente in bilico, senza una via
d’uscita, in ogni caso sempre in sospensione. Molte immagini ne presagiscono
una indagine accurata, pignola, e uno scavo tra le ombre che riflettono ora più
che mai il desiderio della moglie adorata. I limiti sono quelli di una
prigione, i rilievi danno per scontata una fuga, un’evasione attraverso il
precipizio della psicanalisi introspettiva, ma dove? quando? tra notti
asimmetriche e memorie affrante, il suo sé ricostruisce itinerari di nevrosi,
risucchi d’illusioni, ferite sempre aperte, che deformano talune allucinazioni
memoriali abbandonandolo alla nostalgia e anzi sprofondandovelo, fin nella
carne viva, nel perenne dissidio, come in una tensione difforme tra la realtà e
il sogno, tra l’immaginifico e il vulnus che non argina mai il vorticoso
malessere, la inarrestabile ricerca dell’amata: “inseguo le tue ombre
quotidiane/ per rubarti un sorriso” oppure: “Scatta improvvisa la malinconia/
che graffia, che morde, che inasprisce/ le braccia per divenire abbandono.” (pag.
84)
Tutta la sezione dedicata ad Elena è un perverso e
avvolgente sudario per ricordi incontrastati, una reverie “della docile
materia, plasmata intorno ai volti ancora giovanili”. Il poeta vi accumula una
tensione che si compenetra empaticamente con “l’altra” in una psicoanalisi di
sopravvivenza che rimuova la smemoratezza, il vuoto dell’assenza, tutte le
categorie perdute: felicità, presenze discrete, dolcissimi abbandoni in un dispiegamento di simmetrie palpabili,
di interferenze che sono continuamente espressione del suo disagio, rivelazione
di una coesistenza immaginifica, tra il visibile e l’invisibile, fin quasi ad
esasperare la dimensione dell’illimite, l’appartenenza e la commistione
inconscia con l’oltre, di cui si fa carico il dolore: “ora forma dormiente /
sei simbolo del nulla/.../e ricordo/ quando scrivevo per te versi gioiosi.”
(pag. 97)
Il cielo ha voragini inconsulte,/ quasi le vene spaccano il
sudario che riprova lente parole/.../ al confine dei nostri frantumi". (pag.99).
Vi è in quest’opera la forza prorompente di un guado, che
cerca un attraversamento dello Stige,
verso l’altrove, una inconscia eppure lucida pulsione di trasparenze
contraddittorie che violano le necessarie formule di rito, la caducità
dell’istante, l’imperfezione della morte: si fa forte questa poesia di una
levità che, pur, nel baratro provocato dall’addio, percuote e plasma, come in
un canto folle d’amore, le logiche della materia e ne fa arte della parola,
linguismo per scalfirne infine il suo mistero, forse alla ricerca dell’assoluto
di quella trascendenza che è comunione di bene, vincolo di luce perenne,
nell’indistinto dello smarrimento e dell’autoanalisi di ogni azzardo.
Ninnj Di Stefano Busà
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