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IL CIRCOLO LETTERARIO ANASTASIANO CONTINUA SU:

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TACCUINO ANASTASIANO

27 febbraio 2011

Zugunruhe, di Marco Aragno

Solo da qui, da questa parte / voglio ripassare sul marciapiede / qui dove tra due palazzine / si rischiara il giallo dei platani / e pare quasi di tenerti nel tempo.” Ecco: se mai fosse possibile racchiudere tutta l’essenza del pensiero poetico di un autore in alcuni suoi pochi versi, direi che proprio questi che ho appena riportato rappresentano la sintesi di tutto l’excursus poetico di Marco Aragno, ovvero anche il riferimento, il punto cruciale da cui partire per esplorare e considerare il mondo nella sua globalità interiore ed esteriore. E come leggiamo nell’approfondita analisi di Franca Mancinelli, nella prefazione, Marco Aragno ha voluto di proposito utilizzare un termine tedesco, “zugunruhe” per l’appunto, per dare un titolo quanto mai esplicativo a questa sua recente raccolta di versi; termine che significa ansia di movimento, irrequietezza, impazienza. Ma perché proprio una parola tedesca? Evidentemente, nel rispetto dell’universalità della poesia, l’Autore ha ritenuto che tale termine diretto fosse quello più rispondente al suo pensiero, e noi siamo d’accordo con lui, perché forse non esiste un analogo termine nella pur ricca e vasta etimologia della lingua italiana. Un po’ come accade per molte espressioni dialettali, che non hanno la perfetta corrispondenza in italiano e che, anche se venissero letteralmente ben tradotte, difficilmente renderebbero lo stesso significato. Ritengo che sia lecito ed anche opportuno, perciò, utilizzare termini non appartenenti alla propria lingua, quando con la poesia si intenda dare il giusto segnale, l’esatta sensazione delle proprie vedute, della propria filosofia di vita, delle proprie osservazioni. E Marco Aragno lo fa con esperta disinvoltura. Perché il titolo di un libro è importante, ed è ancora più importante quando si tratta di un libro di poesie: deve subito dare al lettore l’idea profonda, autentica, di quello che si sta esprimendo, di quello che si ha intenzione di comunicare, attraverso il velo simbolico e, sovente, allegorico della poesia.
Ma tornando allo “zugunruhe” di Marco Aragno, troviamo subito nei primi versi di questo “libriccino da collezione” (ottima collana di poesia della LietoColle Edizioni), il senso profondo del disagio del vivere quotidiano, espresso con questa “ansia del movimento”, che si concretizza nell’evanescenza dei colori, nel “tremito dei nomi”, in una parola nell’abbandono: “si resta soli la sera / quando intorno si fa la città / e si scrollano i piccioni dai rami”. E’ questa freddezza, questa materiale pesantezza del mondo che incombe sull’uomo, a determinare nel poeta Aragno la necessità di “muoversi”, e con una certa energia, e con una certa impellenza, onde portarsi al di fuori, scavalcando la banalità e la piattezza, e recuperando il fondo di autenticità e di positività latente in ciascuno di noi: “Forse la casa non è più al riparo / in questo tempo, anche se alla finestra / ritrovo i corsi e le strade di sempre.” Ancora è viva ed evidente in Aragno questa necessità di strapparsi dal tessuto inglobante della città, che metaforicamente indica tutto un mondo, questa impellenza “ansiosa” di uscirne fuori, in questi versi molto rappresentativi della sua poetica: “Ma troppo vaghe le mani, le porte / non hanno maniglie e qualcuno fugge / nel colore delle tende, nel rosso / degli oleandri che s’accende / dal fondo dei corridoi, in penombra, / se un po’ di vento riporta la vita”.
Il dettato poetico di Marco Aragno è fortemente simbolico e allegorico. La sua parola poetica, nel verso ben misurato, è decisa e forte, e richiama immagini molteplici e variegate, il che denota un ruolo nient’affatto secondario del suo modo di fare poesia, attuale ed originale. Il libro si presenta per questo compatto, pur suddiviso in cinque parti che ne tracciano lo studio intenso e felice, per il raggiungimento di una méta soddisfacente per sé e per tutti: un piano più alto di vita e di amore.
Nonostante la giovane età, Marco Aragno, poeta napoletano di Villaricca, possiede già un registro poetico alquanto elevato; egli, insieme a pochi altri validi poeti coetanei, anche napoletani, costituisce un sicuro riferimento nel panorama della poesia giovane italiana contemporanea.

Marco Aragno, “Zugunruhe”, LietoColle Edizioni, 2010. Collana Erato, Libriccini da collezione.
Prefazione di Franca Mancinelli.

Giuseppe Vetromile
27/2/11

24 febbraio 2011

Giuseppe Marotta, quattro novelle e un intermezzo di liriche

Si è presentato ieri, mercoledì 23 febbraio, presso la storica Saletta Rossa della Libreria Guida a Port’Alba, il libro “Giuseppe Marotta, quattro novelle e un intermezzo di liriche”, a cura di Paolo Saggese e per conto della Casa Editrice La scuola di Pitagora, Napoli.
Questo interessante libro è un atto dovuto allo scrittore napoletano, che, nato nel 1902 a Napoli, ha origini irpine, essendo figlio dell’avvocato Giuseppe Marotta Senior, un personaggio di spicco dell’avellinese tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento.
Il libro racconta l’infanzia avellinese dell’autore de L’oro di Napoli. Al centro dei ricordi vi è, dunque, Avellino, l’Irpinia, il padre, la madre, e il desiderio di un ritorno nella “città piccola e verde” sotto il Partenio. Ma soprattutto il volume recupera dieci poesie e quattro novelle pubblicate su due riviste irpine (“La decima Musa” e “L’Alba”) e dai lontani anni Venti mai più ripubblicate.
Ne hanno discusso lo storico Andrea Massaro, il critico e poeta Ugo Piscopo, il critico Raffaele Giglio dell’Università Federico II di Napoli, e lo stesso autore e curatore del libro, Paolo Saggese.
Per l'occasione è stata distribuita ai presenti una interessante e preziosa copia anastatica del n° 1 della Rivista "L'Alba", datata 8 maggio 1924, nella quale, tra l'altro, di Giuseppe Marotta sono riportati i primi due capitoli della novella "La canzone del poeta minimo".

19 febbraio 2011

Quel tragico "Novembre" nella poetica di Domenico Cipriano

Giunge da lontano un rombo sordo che scuote la terra e sgomenta gli animi: “Trema la terra, le vene hanno sangue che geme e ti riempie”. Mai evento così catastrofico, quel terremoto dell’80, è stato rivissuto, rielaborato, ripianto e riportato ai livelli più alti della pietà e del cordoglio umano, come in questo poemetto di Domenico Cipriano. Il titolo è emblematico: “Novembre”, e già a leggere e a pronunciare questa parola vengono i brividi, perché si riferisce inequivocabilmente a quel novembre, a quel triste 23 novembre, così lontano sotto certi aspetti, ma ancora così vicino alla nostra storia di uomini del sud, alla nostra esperienza diretta o indiretta che ci ha mostrato le fauci della terra, ci ha fatto vedere la morte con gli occhi del cuore e della ragione, letteralmente. E non poteva, un grande e raffinato poeta irpino e nazionale, giovane ma già maturo nella sua visione poetica contemporanea, come per l’appunto Domenico Cipriano, sottrarsi all’esigenza, oserei dire quasi al dovere, di “utilizzare” la poesia, mi sia consentito questo termine tra virgolette per meglio chiarire il concetto, per riportare a noi il ricordo, per vivificarlo, per umanizzarlo, per cantarlo. Sappiamo che il “là” gli è stato suggerito e ispirato dalla imminenza del trentennale di quel fatidico giorno, e cioè il novembre del 2010, ma un bravo ed esperto poeta del calibro di Domenico Cipriano riesce a compiere l’opera d’arte basandosi sugli elementi storici ed emozionali di un evento, di un evento che ha scosso profondamente non solo la terra, ma soprattutto gli uomini. E Cipriano, nel suo “laboratorio” poetico, ricostruisce quella data, quel giorno di dolore, lo rivive non solo perché si è trovato lì, in quei posti così duramente colpiti, da ragazzino ( “tornare nelle case a piano terra, nei garage / dormivegliare sulla sedia, in tre giorni / ero cresciuto, avevo più forza e pazienza”), ma anche grazie alla sua sensibilità, alla sua grande capacità di immergersi con il cuore e con la mente negli anfratti e nei lacerti più riposti del sentimento e della storia, indagando e ricordando, valutando e riflettendo: “sciacalli sui resti delle case, tra i morti / e le pietre, ma nel freddo si nutrono / aiuti improvvisati, attrezzati con la forza / della stessa notte.”. Non è un resoconto da cronista, il suo, né un freddo e scientifico saggio sui fatti accaduti, né una storia per quanto commovente e dettagliata possa essere. “Novembre”, di Domenico Cipriano, è qualcosa di più. Proprio perché la poesia è capace di sublimare il tutto, innalzando ogni cosa, sentimento, carnalità, natura e creato, uomini e animali. E la poesia di Domenico Cipriano è tutto questo, è sintesi ineccepibile della storia del terremoto, senza nulla tralasciare, senza nulla adombrare, ma anzi accentuando, pur nei pochi ma densissimi versi, ogni aspetto sociale, umano, ambientale, spirituale.
Il libretto è scarno, sobrio, seppure tipograficamente ben realizzato e presentato. Ciò è in sintonia con la storia del terremoto, che non deve essere ammantata di falsi sfavillii o imbellettamenti: nel rispetto dei caduti e delle miserie, nel rispetto di chi ha perso tutto. E la copertina, sempre in sintonia con il contenuto, raffigura macerie. Un libro che è completamente dedicato al terremoto, e lo rappresenta ancora totalmente e simbolicamente, oltre che nei testi, nella copertina e nella struttura. Ci tiene infatti a sottolineare, il nostro bravo Domenico Cipriano, nella nota al termine del libro, che le poesie sono 23, come la data del terremoto; e che ogni poesia, o “stanza”, è composta di 7 versi, i quali, insieme al “prologo” finale di 34 versi, richiama l’ora: 7.34 di sera; e l’introduzione, “intro”, è di 11 versi, come il numero del mese, novembre per l’appunto.
Domenico Cipriano conferma, con questa sua opera, di essere un poeta impegnato e prolifico; pur avendo già raggiunto una indiscutibile maturità, come dicevamo più sopra, maturità che dalla sua stupenda terra irpina lo ha proiettato negli ambienti più alti della poesia contemporanea italiana, continua il suo viaggio affinando la ricerca e lo studio già consolidati ed evidenti nella padronanza della parola poetica e nella sua inconfondibile impronta stilistica.
Novembre” di Domenico Cipriano è un’opera di grande valore, sia per il contenuto fortemente rievocativo, sia per come è stata realizzata, avvalendosi tra l’altro di una approfondita prefazione dell’illustre latinista Antonio La Penna, e abbinandosi ad un prezioso CD musicale di Pippo Pollina, intirolato “Ultimo volo”, in memoria della tragedia di Ustica.

Domenico Cipriano, “Novembre”, Transeuropa Edizioni, 2010. Collana di poesie e altre scritture “Inaudita”.

Giuseppe Vetromile
19/2/11

12 febbraio 2011

Chi non ha avuto perdono, il nuovo libro di Aldo Ferraris

E' stato presentato venerdì 11 febbraio, presso l'HDE di Piazzetta Nilo a Napoli, l'ultimo libro di poesie di Aldo Ferraris, dal titolo "Chi non ha avuto perdono", pubblicato con Kairos Edizioni nella Collana "Le parole della Sibylla" diretta e curata da Antonio Spagnuolo.
La prima sensazione che si prova leggendo i versi di questo interessante poeta novarese, è quella di trovarsi di fronte ad un moderno menestrello, anzi un moderno aedo. Specialmente nella prima parte, il lungo monologo intitolato “Chi non ha avuto perdono”, che dà anche il titolo all’intera silloge, il pensiero va parallelamente agli antichi cantori greci, se non altro per la grande musicalità di questi versi, per il ritmo cadenzato e per la loro sonorità. Anche in “Esuli”, la seconda parte, si ritrova l’impronta del cantore classico: “Rivelami, luce abissale, la parte innocente del visibile / il nome dei venti a cui affidare l’ansia delle vele / rivelami il segno da tracciare sul corpo delle cose / l’imperfezione del gesto che porta alla conoscenza”: sembra quasi di riascoltare quel “Cantami o diva del Pelìde Achille l’ira funesta…” nel proemio dell’Iliade. Anche qui, il nostro Poeta–cantore invoca la luce abissale, cioè la profondità arcana dell’essere, in un disperato tentativo di dare significato alle cose e al cammino dell’uomo (rivelami la rotta, ingannatrice di orizzonti).
Ma tornando al primo poemetto, “Chi non ha avuto perdono”, bisogna oltretutto elogiare l’autore per la scelta appropriata sia dell’esergo che riporta un verso di Ungaretti: “Cerco un paese innocente”, sia dei primi versi di introduzione o presentazione: “Ora chi non ha avuto perdono / non l’avrà, è così tardi. / Ora che questo secolo si è accucciato nella sua cenere / e non fa cenno di pentimento / chi non ha avuto misericordia / non l’avrà, è quali l’alba”. Parole terribili, quasi da giudizio universale. Aldo Ferraris dedica questi versi all’umanità reietta e tardiva nell’accettare misericordia e perdono da una sfera divina e spirituale superiore, e scrive per tutti coloro che hanno in qualche modo perso il classico appuntamento con la giustizia, con la verità, con la felicità, e in una parola con i fondamentali valori della vita. Si tratta come dicevo di un lungo monologo, in cui i versi sono legati l’uno all’altro in efficaci enjambement che ne dettano il ritmo cadenzato. E le parole, i termini, non sono mai chiusi nel loro unico significato, ma si adattano ad estensioni e a prolungamenti che toccano soprattutto la sfera emotiva: “la pelle della notte”, “le vibrazioni della storia”, “una copia stampata male di cielo”, e tante altre espressioni del genere, ricche di scintillanti e indovinate figure retoriche.
Ma il viaggio continua. Dopo i primi due poemetti o per meglio dire canti, troviamo il terzo, intitolato “Straniero”, anche qui ben introdotto con un esergo di Baudelaire in francese originale. Dopo "Esilio", quindi, l’autore si trova “perso in una nuova radura e come un bambino canta a esorcizzare la paura”. E’ evidente il filo logico che comincia a d intravedersi, il percorso che lega tra di loro, nel viaggio, le esperienze del nostro poeta–cantore. E, straniero alla città e al mondo, egli osserva “seduto al centro esatto del giorno” e aspetta con pazienza e con amore che il mondo si rassereni e che lo chiami, finalmente. Attenderà, il nostro cantore, attenderà che ritorni quell’antico amore, riportato a lui da un’aria genuina, dai cieli di periferia, e lui resterà immobile, implorando quell’aria di affrettarsi: "presto si farà buio, guardami ora!"
La conclusione di tutto il percorso poetico del nostro Aldo Ferraris, in questo libro, non poteva essere che una "Preghiera": egli intravede un confine di luce che è possibile raggiungere senza attraversare le tenebre. Vivere in armonia con la natura, ricevendo da essa non le cose desiderate, ma quelle di cui senza consapevolezza, si ha veramente bisogno. Un equilibrio giusto, un’armonia indispensabile, senza soverchierie e senza deficit: per un bilancio di vita in perfetta aderenza e consonanza con il creato.
Questa la conclusione, che è anche l’obiettivo, a mio parere, della ricerca poetico–filosofica di Aldo Ferraris, che utilizza la parola poetica con grande esperienza e padronanza, e con una ricchezza di contenuti che il lettore scopre di volta in volta, come aprendo delle scatole cinesi, contenuti che inducono a riflettere sullo stato dell’uomo e su come esso si pone in relazione al mondo. Chi non ha avuto perdono farà ancora in tempo a riappacificarsi con la propria coscienza e la propria identità di uomo alla ricerca degli equilibri naturali.

Giuseppe Vetromile

Aldo Ferraris, "Chi non ha avuto perdono", Kairos Editore, Napoli, 2011. Collana Le parole della Sibylla, diretta da Antonio Spagnuolo. Prefazione di Davide Morganti.

4 febbraio 2011

L'IMPOETICO MAFIOSO, 105 poeti per la legalità

L’IMPOETICO MAFIOSO
105 poeti per la legalità

a cura di Gianmario Lucini
Epos Collana di poesia politica e sociale
Edizioni CFR – Novembre 2010

“Ci siamo abituati: tutti i giorni … morti ammazzati stesi sull’asfalto … ma questa indifferenza … è un sintomo del male”, Davide Puccini.

Muove Gianmario Lucini, nella prefazione a questo volume, dal confronto fra il ruolo della poesia nell’età classica e quello nell’attuale società. “La poesia epica parlava della pòlis, del suo popolo e della sua vita, dei suoi problemi, dei suoi dubbi, delle sue paure ataviche. Era una poesia capace di stare dentro la società storica e proporsi con un ruolo molto chiaro, quello di interprete della umanità più profonda, di metterla in scena anche nelle sue contraddizioni e nei suoi dolorosi paradossi. La poesia contemporanea invece, troppo spesso, è la noiosa e monocorde proposta di un Io poetico solipsistico, che non si cura dell’altro, ma solo di se stesso, non si sente responsabile del processo di comunicazione ma si mette gegenstand, di fronte, troppo spesso da un pulpito, dall’interno di un gioco le cui regole non sono chiare a nessuno. Non c’è da meravigliarsi se la gente non legge poesia.”
E allora, giusto per rintuzzare questa sorta “di auto-difesa dal non-senso della poesia decaduta e auto-referenziale”, per stabilire un legame tra quel passato e il nostro presente, per riguadagnare il proprio originale ruolo, anzi, più, “nell’idea di assumere un ruolo speciale”, questa antologia poetica, soggiunge Lucini, “esprime il proposito di rottura con la cultura mafiosa e lo fa parlando alle coscienze, alle sensibilità individuali di ognuno”.

Gianmario Lucini è di Sondrio. La sua storia, tuttavia, lo ha condotto, negli anni 2008 e 2009, in Calabria. Lì ha operato, in qualità di volontario, presso l’Associazione don Milani di Gioiosa Jonica e tale attività lo ha portato a compenetrarsi, a commiserare, a schierarsi con quella gente e a decidere di spendersi, ancor più di quanto avesse in precedenza fatto, con le sole armi di cui dispone: la cultura, la poesia, la parola, in favore di quella popolazione e contro il male che subissa quella regione. “Di quel che vedo non v’è traccia sui giornali … soltanto notizie ufficiali dette nel tono che si conviene”, scrive egli nella sua silloge SAPIENZIALI del 2010, le cui poesie traggono ispirazione dall’ambiente della Calabria e “sono segnate dal disgusto per la cultura mafiosa, per la violenza e l’oppressione sociale operata dalla ‘ndrangheta.”

“I morti si chiamano / nelle sere d’inverno quando falcia il maestrale / e chiedono conto ai loro assassini”, Gianmario Lucini.

L’esperienza calabrese, ritengo, ha vieppiù provato l’animo di Lucini e, benché pure riconosca che “la poesia non è certamente l’arma più adatta per vincere le mafie”, ha rinsaldato in lui il disegno dell’odierno progetto, giacché “la poesia, con altre forze sane della società, deve contribuirvi.”
Questa antologia, afferma oggi egli, è “un omaggio alla memoria di migliaia di vittime che hanno lottato per la libertà e la dignità del lavoro, della vita, per i principi che stanno alla base di una qualsiasi convivenza democratica e dunque per il futuro di noi tutti”. E, come per SAPIENZIALI, l’intento di questo libro “non è solo quello della denuncia ma anche di incitare alla rivolta morale, all’obiezione di coscienza e alla disobbedienza civile”, perché, riprendendo la provocazione di apertura, a quella barbarie non ci si abbia mai ad abituare.
Il progetto quindi è stato concepito prima dei nomi, a prescindere dai “nomi”. Ma questi in verità, attorno a quello, sono presto arrivati.
Tanti autori, i quali hanno consapevolmente aderito all’invito e hanno sostanzialmente preso posizione con i loro atti di poesia.
Nomi noti della cultura italiana contemporanea fianco a fianco di altri meno noti e fra loro, oltre al Nostro: Luca Ariano, Guido Oldani, Patrizia Garofalo, Ivan Fedeli, Antonio Spagnuolo, Fabio Franzin, Luigi Di Ruscio, Fernanda Ferraresso, Adam Vaccaro, Pasquale Vitagliano, Patrizia Lanza, Giuseppe Panetta, Antonino Contiliano, Vincenzo Mastropirro, Rosa Salvia, Alfredo Panetta, Fortuna Della Porta, Eugenio Nastasi, Davide Puccini, Narda Fattori, Manuel Cohen, Carla Bariffi, Nadia Cavalera, Cinzia Marulli, Tomaso Kemeny, Gero Miceli, Giuseppe Vetromile, Giovanna Turrini, in un ampio ventaglio di generazioni e di età, fra i venti e gli ottanta anni, e di testi di pregevole valore artistico che si alternano ad altri nei quali lo spirito della testimonianza è la condizione prevalente.
Questo volume, pertanto, sfugge al concetto di antologia nel senso ortodosso del termine di scelta di fiori. Lo stesso Lucini, peraltro, asserisce che egli ha inteso “mettere tra parentesi l’esigenza di selezionare i testi scegliendo soltanto quelli più pregiati dal punto di vista letterario”, ribadendo che “è molto più importante raccogliere un segnale chiaro, esprimere una volontà diffusa nella comunità letteraria”.

Con ciò altresì centrando un ulteriore obiettivo, quello di una larga partecipazione, dal Piemonte alla Sicilia, dal Veneto alla Sardegna e da località di tutto lo stivale: Pavia, Novara, Milano, Asti, Cuneo, Rieti, Cagliari, Roma, Monza, Siena, Sondrio, Napoli, Trieste, Verona, Padova, Bari, Perugia, Cosenza, Venezia, Reggio Calabria, Torino, Bologna, Trapani, Genova, Catanzaro, Ferrara, Livorno, Parma, Forlì, Matera, Frosinone, Lecco, Avellino, Lecce, Varese, Alessandria, Reggio Emilia, Mantova, Vicenza, Agrigento, Pisa.

I temi trattati, per farvi solamente un accenno, vanno dall’urgenza di prendere le distanze fisiche ed etiche dalla Mafia, “mi lavo dalla putredine che sento appena ti avvicini”, Patrizia Garofalo, alla constatazione che essa non è/non è più un fenomeno localizzato unicamente al Sud, “È ormai dappertutto il malaffare”, Nadia Cavalera, dalla riprovazione della sua efferatezza, “lo trovarono / il giorno appresso bruciato su un tratturo / con un sasso in bocca”, Narda Fattori, all’incitamento alle coscienze e alle forze sane della società ad opporvisi e sconfiggerla, “il veleno va schiodato dagli infissi, / se vogliamo costruire”, Carla Bariffi, eccetera.
Su tutto nondimeno s’impone, sorretta pure dalla solidarietà, la speranza, ciò che rimane ogniqualvolta il vaso di Pandora si svuota; la speranza che come ogni cosa di questo mondo la Mafia prima o poi avrà fine, dovrà esaurirsi, cesserà.

“Tra la bellezza e l’inferno / ci sono / cento passi. / Un paese vuol dire non essere soli”, Giovanna Turrini.

Marco Scalabrino

Le Foto de "La Rocciapoesia 3"

Le foto dell'incontro de "La Rocciapoesia 2", a Pratella, il 27 ottobre 2012

Le foto dell'evento "Una poesia fuori dal comune". Sant'Anastasia, 23 settembre 2012

Una poesia fuori dal comune, Sant0Anastasia, 23 settembre 2012

PUNTO, Almanacco della Poesia italiana

PUNTO SCHEDA

ARCARTE - IL VIAGGIO DELLA CREATIVITA'

Si è svolto il 30 novembre scorso, alle ore 17, presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Palazzo Serra di Cassano in Via Monte di Dio 14, Napoli, il Convegno di studi e reading di poesia "ARCARTE - IL VIAGGIO DELLA CREATIVITA'".
All'interessante incontro, promosso e organizzato dall'Istituto Culturale del Mezzogiorno e dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, hanno preso parte:
- Natale Antonio Rossi, Presidente Unione Nazionale Scrittori Artisti;
- Ernesto Paolozzi, Università di Napoli Suor Orsola Bnincasa;
-Antonio Scamardella, Università di Napoli Parthenope;
- Antonio Filippetti, Presidente Istituto Culturale del Mezzogiorno.
Nell'ambito del convegno si è svolta la rassegna "Liberi in Poesia", con la partecipazione di autori di diverse generazioni. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito ad "ARCARTE" quale suo premio una medaglia di rappresentanza.

Le foto del convegno

Presentazione "Sulla soglia di piccole porte"

Enza Silvestrini, 11 ottobre 2012