RIFLESSIONI
SULLA POETICA DI VALERIA SEROFILLI
Da
Amalgama e Dai tempi. I quaderni dell’Ussero. puntoacapo Editrice Pasturana (AL). 2013
Un repêchage storico/memoriale su cui poter
costruire un futuro con spirito positivo
“… Ma se Montale
parlava a nome di un’intera generazione di poeti che vedeva smarriti e si
rivolge al lettore con il tu confidandogli di non avere messaggi risolutivi, il
mio intento è invece quello di rovesciare il segno radicalmente negativo
<>. (F. Romboli). Urge, oggi più che mai, un poieo che
non sia travolto dal mal di vivere ma solo intaccato, per non risultare avulso
dalla realtà e tuttavia al tempo stesso capace di infondere positività nel lettore. Oggi
più che mai si avverte la necessità di una parola poetica che sorga spontanea,
“come le foglie vengono ad un albero”, ricordando l’aforisma di John Keats¹,
senza prescindere tuttavia dall’interiorizzazione e successiva elaborazione di
almeno qualche strumento di base della scrittura. Urge, a mio avviso, una
espressione, un sentire poetico in grado, per la sua universalità, di
eternizzare, andando al di là del contingente e del particolare, come
sottolinea il grande Aristotele. Perché non è affatto vero che “i poeti sono
come i bambini: quando siedono ad una scrivania non toccano terra con i
piedi”, come scrive
Stanislaw Jerzy Lec. Certa
dell’impossibilità di dare una definizione esatta della poesia, concludo
facendo mio il pensiero di S. Johnson ³, secondo cui più che parlare di cosa è
la poesia oggi, sarebbe più facile dire cosa non è…” (Valeria Serofilli: La poesia oggi - dal blog: Alla volta di
Lèucade, 07/05/2012).
Questo scrive Valeria Serofilli in un suo
intervento sul tema “La poesia oggi”. E la sua poesia è folta di occasioni che
prendono il via dalle piccole e dalle grandi questioni, dagli eventi, dalle
suggestioni, dalle sensazioni, dalle emozioni, dove l’ardore allusive delle
metafore incide sul dipanarsi del canto:
Ora che l’afa
non cessa il suo morso
lento / ma vorace
ti porterei con me, a
toglierti un po’ di smog
di quel catrame
trasparente / sedimento
della
vita di sempre (Ora che l’afa);
incide sulla rievocazione meditata di grandi
personaggi:
Ah!
Se potessi / al vivere
non
dover mai / dare
un
resoconto! (In
morte di Mario Luzi);
o sulla immagine vitale
del padre tra una folla intossicata di vita:
Ora che più manchi/
più non manchi
e la tua memoria a
quest’ora
s’intride di luce
Anche qui, tra la
folla / intossicata di vita
vocii richiami
applausi
mi
tieni compagnia” (Lettera a mio padre).
Ma non si arresta certamente a questa
emotiva sollecitazione mnemonica, o ad
uno scusso realismo; se li trascina dietro, questo sì, nei suoi azzardi
immaginifici e zeppi di buone intenzioni; nel bagaglio produttivo a cui
attingere con autoptica e spontanea ricostruzione di quello che è rimasto a
decantare; nelle sue riflessioni sul vissuto e i quesiti del nostro esistere
demandati ad un verso che amplifichi i sintagmi per trasferirli oltre i
significanti metrici del canto; significanti, che, pur alludendo alla via crucis del nostro vivere, ne
annuncino una luce a schiarire le tenebre:
Padre Nostro
ti ringrazio per il
giusto apporto di raggi quotidiano
e anche se il mio
giorno trascorrerà
cliccando “mi piace” o
“commenta”
salverò in bozze il
mio telematico
ma mai anacronistico
-Ti amo – (Moderno Padre Nostro),
perché la poesia non deve annichilire, né
tanto meno scoraggiare in questa società bisognosa di impulsi positivi. E la
poetessa lo fa ricorrendo alla parola che per lei è il tutto. È il corpo
dell’anima. Ricorrendo a quel riposo edenico di cui c’è bisogno in questa
convulsa vicissitudine; al sogno, che, esso stesso, ne fa parte:
Finché la sveglia non
ci sottragga
a ciò che induca al
sonno
ed alla mente il
sogno,
il
giardino sia quello delle Esperidi! (La sveglia).
E sta tutta qui la sua poetica: in quel mélange indissolubile fra dire e
sentire. Una ricerca di vincoli sonori, di figure stilistiche, di allusioni
verbali, di traslati, tramite cui trasferire l’immagine sedimentata oltre i
confini. Perché è proprio dell’uomo ambire a toccare l’azzurro del cielo. Lo
vive come esigenza. E sta anche qui la umana/disumana dicotomia fra la nostra
“terrenità” e il fatto di essere spiriti lanciati oltre la siepe. Comunque, sa,
la Serofilli, che con una ricerca attenta e assidua del verbo si può soddisfare
la nostra brama di allungare il più possibile lo sguardo all’inarrivabile. Sta
in questo tentativo arduo lo slancio novativo della poesia della Nostra. Una
poesia che sgorga da un’anima pregna di sensazioni ed emozioni che vogliono
uscire rinnovate in una visione di assoluto, di rinascita:
Che si rompa il guscio
di pietra focaia e fionda
il cavernicolo di
ripercussioni e invidia
Via l’involucro di
mattoni vecchi
per rinascere acqua di
lago / senza spreco
fondamenta più solide,
anche se di palafitta
e poter dire infine
“Evviva, è nato l’uomo senza
il
guscio!” (Ab ovo).
Ma è cosa possibile forgiare un discorso
che contenga pienamente gli abbrivi imprevedibili del nostro essere? D’altronde
il verbo e la sua articolazione sono umani, ciò che non lo è la cospirazione
del nostro spirito. Uno spirito che anela a superare i limiti, a slanciarsi
oltre le misure di uno spazio ristretto. C’è anche, in questo “poema”, una
richiesta alla natura di una sua collaborazione cromatico-allusiva. Del suo
proporsi:
O non è forse / il
solo
restare qui /
abbracciati
mare monte lago
semplicemente noi
la
nostra estate? (Ora che l’afa).
Ciò che si attua con una vera fusione fra
l’animo dell’autrice e gli elementi panici che lo completano.
Ed
affidarsi a riflessi naturistici, a una simbiotica amalgama di poli contrari
per simboleggiare la funzione di una palingenesi epifanica, rientra nelle corde canore della Serofilli. Sì, perché lei
crede nella poesia, le affida un grande compito: quello di una presenza in
questa “società liquida”, fatta di “viandanti sperduti”, “intossicata di vita”.
E il suo dire assume svincolamenti, forzature morfosintattiche, perché
nell’anima della Nostra c’è l’intenzione di trasferire il contingente in sfere
sublimanti:
Quando uscirà / il mio
nuovo libro
avrà pagine di vento,
i colori del tramonto
inchiostro d’alba / la
pelle dei bambini
di tutto il mondo
Il mio nuovo libro /
quando uscirà
sarò uscita anch’io, e
fuor di scena detterò
parole intrise della
saggezza
di chi non più la
cerca
Sarà allora che il mio
Editore
venderà copie a
milioni / e le ristampe
e presentazioni
ovunque /ed interviste
Quando uscirà / il mio
nuovo libro
sarò famosa d’erba e
nuvole
e da un angolo di
cielo, assaporerò finalmente
ciò
a lungo negatomi (Preghiera del Poeta).
Un
linguaggio metaforicamente complesso: diciamo di una semplicità complicata, ma
pur sempre funzionale a una trama dalla bellezza eufonica di un verso
essenzializzato. Di un verso che esonda ex
abundantia cordis. Metafore che si accavallano in un gioco di innesti. Una
verticalità senza fine. Metafore che non trovano un compimento assoluto, ma che
generano a loro volta sostanza per nuove allusioni metaforiche. Un castello fatto di tasselli stratificati,
legati gli uni agli altri a sorreggersi, per cui, togliendone uno, uno solo,
franerebbe l’insieme; nuocerebbe alla costruzione. Eccola la compattezza
dell’opera della Serofilli. Un’opera di polisemica significanza, dai toni epico
lirici, anche, ma di una sonorità da melodia pucciniana che tiene uniti, con il
suo perpetrarsi in sottofondo, tutti i quadri della rappresentazione lirica. E
ciò che aiuta questo fluire melodico – la sonorità è nella parola, nella
disposizione dei nessi e negli intrecci
concentrici, disposti con naturalezza all’espansione – ciò che l’aiuta
sono quelle rime interne o quelle assonanze, quelle metonimie o sinestesie che
s’intersecano nell’articolato linguistico.
Un
realismo lirico? un ensemble di
riccioli barocchi su facciate impreziosite da stucchi? - con accezione
positiva, naturalmente -; un assemblaggio lessicale nutrito di vaghezze semantiche? di perspicua sapidità
disvelatrice? un forbito intrico di intensificazioni verbali? un
esistenzialismo panico finalizzato a concretizzare un sapido pathos? un credo che innerva i versi
della sua substantia per sfidare il
tempo? il suo inderogabile fugere? la
sua inesorabilità, e il senso eracliteo dell’esistere? Sì, io penso che nella
poesia della Serofilli ci sia un po’ di tutto questo, con l’aggiunta di un repêchage storico/memoriale che faccia
da piedistallo su cui poter costruire un futuro con spirito positivo. Una
storia da programmare con grande abbrivo emotivo dove passato presente e futuro
si embrichino indissolubilmente dando forma al logos della poesia; oltre il memoriale: “Sei l’antico etrusco / che
abbraccio sul sarcofago / il bizantino con me nel Mosaico” (Dai tempi).
Un
poièin nuovo; o meglio una poesia
che, ri-lucidando l’antico, si proponga attuale in una veste rivoluzionaria.
Perché c’è tutta l’insoddisfazione delle sottrazioni umane, quella
insoddisfazione del fatto di esistere che è stata sempre presente nella
filosofia etico/estetica dacché l’uomo è uomo. Ma c’è anche quell’azzardo a
scomporsi in scrittura sperimentale che può fare a meno di tanti nessi
canonici, di interpunzione o altro, perché sente forte la necessità di arrivare
al lettore, al dunque; sente forte l’input
della libertà, dello sperdimento nel sogno; ma, soprattutto, lo stimolo a non
perdersi per strada in questa corsa verso una simbiotica fusione fra essere ed
esistere. In questa corsa verso un dire che annunci la propria esistenza; e che
non si riduca solo ad “una solitaria esperienza senza gioia e senza orizzonti”
di montaliana memoria; ma che gridi con tutta la sua forza la voglia di
incidere sulle vicende umane; fino ad affidarsi all’unico giudice:
l’Eterno:
[…] Quando uscirà / il mio nuovo libro
sarò famosa d’erba e nuvole
e da un angolo di cielo, assaporerò
finalmente
ciò a lungo negatomi
E se mi commuoverò
il mio sorriso / rifranto all’infinito
avrà tutte le sfaccettature
della luce, rugiada mattutina le mie lacrime
Il mio pubblico immenso:
ogni poeta / ogni ricerca di senso
Sarà storia il trascorso, il vissuto un
esempio
consiglio ogni sbaglio
Senza rilegature le pagine, si spargeranno a
mille
seme di giudizio / maturato a pelle, perle di
esperienza
Rilassata / altrove, ne gusterò
il sapore, raccogliendo il frutto
del mio trascorso ardore
Ora che più non preme
anche se oltre, il senso, non
verrà disperso / eredità sofferta
ma mai rimorso, il tentativo di suggerimento
Non più resoconto
né agli altri, né a me stessa
Unico giudice: l’Eterno”
Nazario Pardini
7/12/2013